Clara E. MATTEI, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la
strada al fascismo, Einaudi, Torino 2022, ISBN 978-88-06-251-175-8. Euro
34.00.
“UN LIBRO ASSOLUTAMENTE DA LEGGERE, CON LEZIONI CHIAVE PER IL
FUTURO. L’ECONOMIA POLITICA STORICA AL SUO MEGLIO”. Thomas Piketty
Quello di Clara E. Mattei, pubblicato – nel 2022 – a breve distanza di tempo in Italia e negli Stati Uniti (University of Chicago Press), è un libro estremamente avvincente. Il titolo inglese dell’opera mi sembra senza dubbio più aderente al suo autentico contenuto: The Capital Order: How Economists Invented Austerity and Paved the Way to Fascism. In realtà, il principale contributo principale di un’indagine tanto accurata consiste, a mio giudizio, nell’aver dimostrato che liberalismo e fascismo procedono, sul piano della politica economica, dalle medesime premesse. Rappresentano, in altre parole, due facce della stessa medaglia. Il che, se guardiamo alle misere rappresentazioni del teatrino politico italiano, dovrebbe servire da monito a quanti ancora si stupiscono per le scelte antipopolari del Gabinetto Meloni.
Per più di un secolo, i governi, nell’affrontare le tante e ricorrenti crisi di finanza pubblica, hanno fatto ricorso a politiche economiche di austerità – tagli ai salari, alla spesa fiscale, alla sanità e all’assistenza sociale – come mezzo per raggiungere la solvibilità. Sebbene esse abbiano avuto sovente successo nel placare i creditori (ossia il grande capitale finanziario internazionale), hanno, al tempo stesso, prodotto effetti devastanti sulla tenuta sociale ed economica dei Paesi di tutte le parti del mondo. Oggi, mentre la deflazione rimane la politica favorita degli Stati in difficoltà, rimane in campo, malgrado ciò, una domanda fondamentale: e se il vero obiettivo dell’austerità non fosse mai stato quello della mera solvibilità?
Clara E. Mattei, nella sua monografia, esplora la genesi storica dell’austerità al fine di individuarne le motivazioni originarie: la protezione del capitale – e dell’ordine capitalista – in tempi di sconvolgimenti sociali provenienti dal basso.
La giovane studiosa italiana – che insegna negli Stati Uniti – individua il punto di avvio dell’attuale nozione di austerità nella Gran Bretagna e nell’Italia degli anni ’20 dello scorso secolo, sottolineando come – per tener testa alla capacità di mobilitazione della classe operaia, subito dopo la fine della prima guerra mondiale – le oligarchie economiche e finanziarie avessero messo in campo una serie di misure economiche volte a tutelare i proprietari, a soffocare i lavoratori e a imporre una rigida gerarchia economica, sociale e politica. Lì dove, in termini relativi, queste strategie hanno conseguito, quanto ai conti pubblici, “successo”, si è assistito comunque al vertiginoso arricchimento di alcuni (innanzi tutto, degli agenti del capitale finanziario e dei padroni dell’industria, in primis di quelli che possiedono imprese esportatrici), e al contestuale ridursi del monte salari e delle retribuzioni operaie. È qui, sostiene Clara Mattei, che si può osservare il maggior “pregio” dell’austerità: la violenta tutela del privilegio di pochi e l’eliminazione di ogni reale alternativa al capitalismo.
Attingendo a materiali d’archivio di recente scoperta provenienti dalla Gran Bretagna e dall’Italia, Operazione austerità offre un nuovo resoconto, sconvolgente nella sua essenzialità, dell’ascesa dell’austerità e dei suoi impieghi nella gestione delle leve del potere politico contemporaneo nella prima metà del Novecento.
Durante la Grande Guerra appariva, ormai, a tutti chiaro che subordinare la produzione alle cosiddette regole del mercato avrebbe fortemente ostacolato la capacità di ciascuna nazione di sostenere, alla lunga, lo sforzo bellico. Si percepì, così, che il capitalismo non rappresentava l’unico ordine sociale possibile e, in fondo, neppure il più efficiente. Un altro mondo e perfino la socializzazione dei mezzi di produzione apparivano possibili. Dopo quella guerra disastrosa, in un momento di inflazione fuori controllo e di sollevazione democratica, che coinvolse l’intera Europa, gli esperti economici scesero, allora, in capo per difendere l’ordine economico capitalista. E, così, spietate politiche deflazionistiche, volte a spezzare la capacità di resistenza delle classi lavoratrici, furono contrabbandate dagli ‘economisti ortodossi’ sotto il nome di austerità. E quest’ultima, anche in passato non diversamente da oggi, si associò, quasi inevitabilmente, o a svolte autoritarie (come in Italia con il fascismo) o comunque, così in Gran Bretagna, a un indebolimento della partecipazione democratica. In tal modo, a esclusiva tutela dell’inviolabilità dell’ordine sociale capitalistico, si trasferirono immense risorse dalla maggioranza lavoratrice alla ristrettissima minoranza dei risparmiatori-investitori.
Prima della Grande Guerra era bastato il Gold Standard a disciplinare, sul piano economico, le masse proletarie. Quest’ultimo, costringendo gli Stati a custodire nelle proprie casse una certa quantità d’oro in modo da poter rispettare l’impegno di convertire in quel metallo le rispettive valute a un determinato prezzo, imponeva di evitare i deficit delle partite correnti che avrebbero determinato una fuoriuscita del metallo prezioso. Sul piano della politica economica, occorreva, pertanto, ridurre la domanda interna al fine di ottenere un avanzo commerciale. L’imperativo del rigore fiscale divenne la norma, mentre, al contempo, i tassi di interesse promessi per remunerare i capitali investiti nel debito pubblico finivano, inevitabilmente, per deprimere l’economia e, di conseguenza, i salari dei lavoratori, congelando qualunque scenario lato sensu redistributivo. Del pari la presenza di una vasta riserva di disoccupati disciplinava i lavoratori, incentivandoli a tenersi il posto e la busta paga pur di garantirsi la sopravvivenza. Nel corso della Guerra 1914-1918 tutti gli Stati dovettero progressivamente rinunciare alla convertibilità aurea. Proprio per questo, si rese allora necessario, per sottomettere nuovamente le masse lavoratrici, elaborare politiche economiche deflazionistiche. E non è un caso, se i conservatori britannici e i fascisti italiani abbiano – senza sostanziali differenze – perseguito, con ostinata ferocia, l’obiettivo di ripristinare, il più rapidamente possibile, i meccanismi del Gold Standard. La Lira, nel 1927, raggiunse la fatidica quota 90 nella sua convertibilità con la Sterlina oro. Furono soltanto gli effetti della crisi del 1929 a imporre al regime mussoliniano, soprattutto dopo il 1934, una parziale rettifica della precedente politica economica e ad aumentare –molto più timidamente che altrove in ogni caso – la spesa sociale.
Invero questo volume sfata, mettendo a disposizione dei lettori un ampio corredo di dati, un mito molto diffuso tra i nostri contemporaneisti (sia tra quelli della domenica [alla Bruno Vespa], sia tra gli storici accademici, in specie tra gli allievi formatisi alla scuola di Renzo De Felice): il fascismo non soltanto non ha perseguito l’elevazione del tenore di vita dei ceti popolari, ma, al contrario, almeno fino alla metà degli anni ’30, ha costantemente tagliato, perfino rispetto alle non esaltanti percentuali d’anteguerra, i fondi destinati all’assistenza sociale, alla sanità, alla scuola e ai sussidi ai disoccupati. I salari nominali, in special modo dopo il 1927, furono più volte tagliati per decreto (nell’industria e nell’agricoltura del 10%). Nel 1928 la disoccupazione elevata e la scarsità di lavoro produssero, finalmente, i risultati sperati: innanzi tutto un rapido aumento dei profitti.
Tra gli economisti che appoggiarono entusiasticamente queste politiche economiche, volte a deprimere le condizioni di vita dei ceti popolari, si distinse Luigi Einaudi, destinato a diventare, dopo la promulgazione della nostra Costituzione, il Primo Presidente della Repubblica Italiana. Malgrado le sue perplessità sul regime nei mesi successivi al delitto Matteotti, l’economista piemontese appoggiò sempre, nei suoi interventi sul Financial Times, la politica economica di Mussolini. Insomma l’ambasciatore nel mondo del pensiero liberale italiano riconobbe al fascismo il “merito” di aver salvato, nel nostro paese, l’economia di mercato e l’ordine capitalistico. La sua presenza, nel secondo dopoguerra, ai vertici dello Stato (Banca di Italia e Presidenza della Repubblica), ha contribuito sensibilmente, negli anni ’50 al tempo dei governi centristi, al processo di svuotamento della nostra Costituzione e dei suoi contenuti solidaristici, un processo rettificato solo in parte nella breve stagione del riformismo nostrano (1962-1972). Purtroppo l’eredità di questo pensatore è tuttora vitale, come hanno potuto sperimentare molti Italiani (innanzi tutto i più poveri), a partire dal 1978. Tra il 2011 e il 2013 Mario Monti – imparagonabile, ovviamente, a Einaudi sul piano scientifico e culturale – ha però perseguito con coerenza le linee fondamentali del suo pensiero, come purtroppo abbiamo potuto constatare durante lo sciagurato governo da lui presieduto.
La lettura di questo volume è da consigliare a tutti coloro i quali vogliono farsi un’idea precisa – in base a corrette informazioni e a una definizione puntuale dei dati che emergono dalla lettura delle fonti – sulla genesi storica del pensiero economico che inventò, negli anni ’20 dello scorso secolo, la cosiddetta austerità. E l’austerità – non dimentichiamolo mai – è una categoria politica che in Italia è stata congegnata e imposta, a esclusivo vantaggio delle oligarchie industriali e finanziarie, dal regime fascista. Si fece ampiamente ricorso, altrove come nel nostro paese, a violenza e sopraffazione per sottomettere i lavoratori e per garantire, al contempo, la stabilità delle gerarchie sociali e dell’ordine capitalista.