Viviamo, da tempo, in un ambiente mediatico fortemente condizionato dalle “veline” utilizzate dalle TV e dalle testate giornalistiche per condizionare, fin dal suo stesso nascere, la formazione della cosiddetta “pubblica opinione”. E, in effetti, tutto è controllato, a livello mondiale, da poche agenzie di stampa. La AP-Associated Press, la Reuters e la France Press Agency sovrintendono, da sole, al 95% circa delle notizie che si lanciano a livello globale.
Parlare, in tali condizioni, di libertà dell’informazione sarebbe, a dir poco, ridicolo. Al giornalismo indipendente si riserva qualche angusta nicchia, purché, ovviamente, chi vi opera non disturbi oltre misura i manovratori. La repressione delle poche voci dissenzienti può giungere, come nel caso di Assange, fino all’incarcerazione a vita o alla condanna a morte per consunzione. ‘Facebook’ e ‘Google’ sono entità private soltanto di nome, dal momento che l’intenso flusso di notizie, che queste due società veicolano, è capillarmente filtrato e dosato dalla CIA e dalla NSA, ossia dall’autentico cuore del ‘Deep State’ statunitense. Insomma il mondo costruito dopo la caduta del muro di Berlino a tutto assomiglia, fuorché all’autentica democrazia immaginata dai nostri ‘Padri Costituenti’ del 1948. Le liberal-democrazie, così come ancora si concepivano negli anni ’80 dello scorso secolo, non esistono più. Continuiamo a far finta che la politica
abbia ancora corso, che conti ancora qualcosa. Ma, come ha scritto Wolfgang Streeck, nell’ordine del capitalismo postdemocratico i governi devono rendere conto ai loro creditori internazionali piuttosto
che ai loro elettori.
Dopo la fine dei ‘Trent’anni Gloriosi’ (1946-1975), segnati in tutta Europa da un’effettiva redistribuzione della ricchezza prodotta e dall’aumento del monte salari, dal consolidamento di un forte ceto medio e dalla creazione di un pervasivo ‘Welfare State’, il nostro continente si è avviato in una direzione esattamente opposta, privilegiando – una volta costituita l’UE – la libertà di circolazione dei capitali rispetto a qualsiasi altra libertà e a qualsiasi altro interesse. In questo nuovo ordine, che si conforma, fin dagli anni ’80 del secolo scorso, all’esigenza delle imprese transnazionali e della grande finanza di oltrepassare ogni confine per trovare sempre nuove occasioni di investimento e di profitto, quasi tutti gli Stati e, dunque, anche l’Italia, hanno rinunciato a tutelare quelle garanzie sociali del lavoro, che contrassegnarono, invece, i tre decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, e a promuovere, al contempo, quelle politiche di pieno impiego che rappresentarono, allora, la premessa indispensabile del miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie autoctone e immigrate.
Se un’impresa, perseguendo il profitto, ha il diritto di delocalizzare i propri impianti produttivi ovunque voglia, nessuno sciopero per il salario, nessuna lotta per la stabilità del lavoro può, alla lunga, risolversi favorevolmente, come dimostrano, purtroppo, molteplici e recenti episodi di cronaca. Se a ciò si aggiunge la ‘flessibilizzazione’ del mercato del lavoro, che comporta il progressivo svanire del confine tra autonomia e subordinazione, subito si percepisce quanto sia arduo – diversamente dal quel che accadde negli anni ’60 del secolo scorso nel nostro paese (nel caso dell’immigrazione meridionale al Nord) e, in genere, in gran parte del continente europeo – integrare i lavoratori in una comunità del lavoro che, condividendo i medesimi interessi e perseguendo i medesimi obiettivi, favorisca e acceleri il processo di emancipazione sociale degli individui. Anzi, in un contesto come quello finora descritto, possono trovare ampio spazio forze politiche decise a speculare sull’ostilità dei ceti popolari verso chiunque sia disposto a lavorare di più per meno e la cui massiccia presenza finisca, al contempo, per rendere troppo arduo l’accesso ai servizi pubblici essenziali e per peggiorarne severamente la qualità. Rispetto ad altri paesi, tutto ciò è stato vieppiù acuito dalle rigide politiche deflazionistiche imposte – come ripetono, da decenni, tecnici e politici succedutisi al governo – dalla difficile situazione finanziaria dell’Italia e dall’esigenza di difendere l’impianto istituzionale della moneta comune. Per accrescere il flusso delle proprie esportazioni e per limitare le importazioni, al fine di mantenere in equilibrio la bilancia commerciale, si prescrive – in luogo della svalutazione della moneta interdetta, dopo il 1996, in conseguenza dell’adesione al Trattato istitutivo dell’euro – il ricorso alla compressione dei salari e all’aumento, attraverso una tassazione per lo più regressiva, della pressione fiscale. Se oggi, in Italia, Governo e Presidenza del Senato sono nelle mani degli eredi di un partito dichiaratamente fascista, se si diffama la Resistenza e si oltraggia la memoria delle vittime della strage delle Fosse Ardeatine è perché l’erede (in termini economici e di gestione del potere locale) dei Partiti della Sinistra di classe (in primis, ovviamente, del Partito Comunista Italiano) ha a cuor leggero – basti pensare alla risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 – equiparato nazismo e comunismo, ponendo, a ben vedere, sullo stesso piano gli atroci aguzzini di Auschwitz e chi di quel campo di sterminio ha liberato gli ultimi, pochi superstiti. La deriva di questi sedicenti antifascisti è tale che essi non hanno manifestato alcuna remora a schierarsi a fianco dei nazisti ucraini, fino al punto di elaborare l’inedita figura del nazista kantiano.
È la stessa sedicente sinistra, che dopo aver stravolto, nel 2001, il Titolo V della Carta del 1948, sta discutendo, dopo averne posto le premesse sul piano costituzionale, la cosiddetta “Autonomia Differenziata”, tanto cara alla Lega e alle oligarchie affaristiche italiane, che si coordinano politicamente, a seconda del momento e delle convenienze, con il Centrodestra o con il Centrosinistra. E questo vorace affarismo – che, una volta fatta man bassa nel settore della sanità, intende adesso metter le mani su gran parte della spesa pubblica destinata alla scuola e ad altri servizi – coinvolge a pieno anche la Lega delle Cooperative, che, come è noto, fa capo al PD. Non è un caso che Bonaccini e Giani (Presidenti dell’Emilia Romagna e della Toscana) abbiano dato il loro esplicito assenso a quest’improvvida iniziativa, che, disarticolato del tutto lo Sato Unitario (in spregio dell’art. 5 cost.), deprimerà ancor di più il livello dei servizi garantiti agli Italiani, soprattutto a quelli che abitano nelle regioni meridionali (già oggi fortemente discriminate e penalizzate quanto alla distribuzione ‘pro capite’ della spesa pubblica).
Infine la guerra. L’Italia – in ragione della sua partecipazione alla NATO – si trova, da più di un anno, in una situazione di sostanziale co-belligeranza. Quanto tutto questo si conformi ai princìpi sanciti dall’art. 11 della nostra Costituzione è problema che, in futuro, affronteremo nel dettaglio anche su questo sito. Per ora dobbiamo limitarci a sottolineare che già nel 1999 – con il governo D’Alema – l’Italia partecipò a un’aggressione militare in piena regola, portando migliaia di attacchi aerei alla Jugoslavia.
La nostra Associazione “Sovranità Popolare e Costituzione” si propone di riscoprire lo spirito della Costituzione del 1948. In quest’ottica, intendiamo in primo luogo chiederci quanto il modello di società programmato dai nostri ‘Padri Costituenti’ si concili con la costituzione economica introdotta dai Trattati Europei (‘Trattato Unione Europea’ e ‘Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea’).
È un tema – sia ben chiaro – già discusso da altri perfino in rete. Noi ci proponiamo di affrontarlo in termini ancor più divulgativi, per consentire a chi si riconosce nella tradizione dei Partiti delle Sinistra di Classe o nella Dottrina Sociale della Chiesa (così come essa era stata declinata da esponenti della Sinistra Cristiana [Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, etc.]) di verificare quanto ci siamo allontanati dal modello originario. Tutti sappiamo che la nostra Costituzione è stata sconciata dalla nuova formulazione dell’art. 81, che si pone adesso in netto contrasto con gli impegni enunciati dagli artt. 3 c. 2° e 4 c. 1°. È ancor più grave – ma, purtroppo, lo si constata sovente quando si leggono gli scritti più recenti dei costituzionalisti italiani – considerare abrogata o priva di effetti obbligatori, in presenza dei vincoli europei, la Costituzione economica fissata dai «Princìpi fondamentali» (artt. 1, 3 c. 2°, 4) e dal «Titolo III della Prima Parte» della nostra Carta Costituzionale (artt. 35- 47). In tal modo, oltre a calpestare, di fatto, l’art. 138 della nostra Carta Costituzionale, si degrada a mero auspicio, se non proprio a ‘flatus vocis’, l’art. 4, c. 1° c. della Costituzione e il diritto al lavoro. Le nostre avide oligarchie, vincolandosi volontariamente alle discipline dell’UE e alle politiche di austerità, hanno trovato modo di far accettare ai lavoratori e alle loro sempre più addomesticate organizzazioni sindacali quell’obbedienza che altrimenti avrebbero incontrato difficoltà a imporre. E tutto questo – ironia della storia – è stato contrabbandato sotto le mentite spoglie dell’ideale della fratellanza dei Popoli Europei e della pace. Demistificare le narrazioni del ‘mainstream europeista’ è un’operazione irrinunciabile per chiunque si proponga l’obiettivo di recuperare lo spirito della Costituzione Repubblicana del 1948.
L’Associazione ‘Sovranità popolare e Costituzione’ è stata costituita innanzi tutto per questo.